Quando sento parlare Umberto Eco di Internet la mano mi va ai libri di McLuhan.
Per chi non lo conoscesse, ma dubito, McLuhan è stato un sociologo, forse il più importante studioso dei Media e della comunicazione. Un bislacco professore canadese a cui Umberto Eco (ma anche Roland Barthes, per dire) deve moltissimo, perché lui prima di tutti considerò i Media (e in particolare della televisione, del computer e di quelli che lui chiamava “media elettronici”) un campo da studiare come ogni altro fenomeno sociale. La cosa abbastanza bizzarra è che McLuhan non era un impallinato di televisione o di informatica, anzi tutt’altro. Semplicemente individuava in essi delle tendenze di una società. Questo era l’unica cosa che davvero gli interessava: da sociologo amava studiare l’uomo nella sua declinazione comunicativa perché lo riteneva, non per banali ragioni, un campo strategico per capire cosa stava cambiando nel mondo. La sua capacità di distaccarsi quanto dovuto dall’oggetto del suo studio gli permise di vivere il suo tempo, appassionarsi a ciò che non amava e profetizzare, in alcuni casi in modo incredibile, il futuro davanti a lui. Il segreto di McLuhan era quello di non giudicare ma di indagare, di non avere pregiudizi ma solo molta curiosità, di parlare a tutti, ma proprio tutti (imbecilli compresi) rilasciando interviste perfino a giornali per adulti, come fece nel 1969 per Playboy. In uno dei tanti passaggi di quell’intervista, McLuhan inquadra benissimo la sua visione delle cose:
Prima di tutto—e mi spiace dover ribadire una tale smentita—io non sto supportando nulla; sto semplicemente indagando e prevedendo delle tendenze. Anche se fossi ad esse contrario, o se pensassi che siano disastrose, non potrei fermarle, quindi perché sprecare il tempo a lamentarsi? […] Non vedo la possibilità di una ribellione Luddista mondiale che farà a pezzi le macchine, quindi potremmo anche starcene tranquilli a osservare ciò che ci accade in un mondo cibernetico. Provare antipatia per una nuova tecnologia non ne fermerà il progresso.
Ecco. Leggo McLuhan e ripenso ad Umberto Eco. E allora il problema non è tanto soffermarsi nel chiedersi se i social media danno davvero diritto di parola agli “imbecilli” (che in ogni società civile e democratica hanno perfino il diritto di voto) o se la rete è la colpevole della disinformazione giornalistica (luogo comune smentito perfino da una ricerca dell’università della Columbia, che spiega che la colpa principale è sempre dell’industria dei Media).
Il problema semmai è che qui da noi l’intellettuale, il professore, lo studioso, ha smesso da tempo di fare il suo mestiere. Ha smesso di indagare il mondo in cui vive, ad appassionarsi alle dinamiche di una società nuova e in continuo mutamento. Ha smesso di ibridarsi con essa, magari anche sporcandosi il gilet. Invece che arricchire il mondo, anche avanzando critiche costruttive ad una dinamica comunicativa – quella della rete, non certo scevra di limiti e di pecche – preferisce elevarsi in un torre di cristallo, liquidare tutto come dannoso, pericoloso e sbagliato. Come se il suo grande privilegio di contribuire a migliorare il mondo in cui vive si trasformasse nel privilegio di vedere gli altri morire perché “imbecilli”. Tutto questo è il vero problema oggi in Italia, e purtroppo non si limita alle vacche sacre come Umberto Eco, ma investe tutto un sistema accademico, autoproclamatosi elite culturale, poco propenso a vivere il proprio tempo e magari ad insegnare ad altri ad usare più responsabilmente dei mezzi come i social media. Sempre McLuhan, sempre nel 1969, sempre intervistato da Playboy, ricordava che
[…] l’istruzione, che dovrebbe aiutare i giovani a comprendere e ad adattarsi ai nuovi ambienti rivoluzionari, viene invece utilizzata solamente come strumento di aggressione culturale, che impone ai giovani re-tribalizzati i valori visuali obsoleti dell’era morente dell’alfabetizzazione. Il nostro intero sistema educativo è reazionario, orientato ai valori e alle tecnologie del passato, e ciò continuerà probabilmente così finché la vecchia generazione non cederà il potere. Il gap generazionale in questo momento è un abisso che separa non due gruppi d’età, ma due culture enormemente divergenti. Posso capire il fermento che attraversa le nostre scuole, poiché il nostro sistema educativo funziona interamente attraverso lo specchietto retrovisore.
Ecco, il problema in soldoni è questo: è che qualcuno alla guida, continua ad ordinarci di guardare nello specchietto retrovisore, quando in realtà dietro alla nostra auto non c’è nessuno.
PS
Ma poi voi ve lo immaginate Umberto Eco intervistato da Playboy?
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