8 luglio 2014 | Culture, Italia

Perché l’equo compenso è una tassa ingiusta

Visto il dibattito in rete sul decreto Franceschini sull’equo compenso (oggi sono trapelate le tabelle con gli aumenti sui singoli device), tre cose veloci voglio dirle, senza per forza mettere sul tavolo il ruolo della SIAE in Italia o la legittimità del diritto d’autore.

1) Storicamente la tassa sull’equo compenso è una tassa dell’era analogica. Nasce cioè in risposta alla commercializzazione dei primi supporti di memoria magnetica, ovvero, per fare un esempio banalissimo, le audiocassette parlando di musica o le videocassette VHS parlando di cinema e TV.  Si parla di un mondo di tanto tempo fa, quando la memorizzazione di dati e di contenuti era una pratica limitata di chi acquistava questi supporti nel loro formato “vergine”, presumendo l’intento che sarebbero stati usati per la registrazione di “copie private”. Se ci pensate bene non c’era molto altro da fare con una musicassetta vergine: ci si poteva solo memorizzare della musica, come così in un VHS ci si poteva solo memorizzare una traccia video. L’equo compenso nacque proprio in questo contesto, nel voler “prevenire” la non compensazione del diritto di autore (aveva una sua logica: che poi qualcuno usasse un VHS solo per la filmare la Comunione del figlio dimostra che anche allora c’era un’evidente rischio di andare a colpire anche chi non aveva la minima intenzione di farsi le copie dei film visti in TV). Ma oggi il mondo è un po’ cambiato: i supporti di memoria digitale si sono diffusi in modo massiccio al di là della loro funzione di registrazione dei dati audiovisivi. Oggi usiamo una semplice chiavetta USB per fare di tutto: dallo spostare dei documenti di lavoro a portarci in giro le foto di famiglia. Fra qualche anno usciranno dal commercio tutti i telefoni cellulari senza un supporto di memoria. Anche se vorrete usare un telefono solo per la sua funzione originaria, telefonare, non ne troverete nessuno senza qualche TeraByte di spazio da utilizzare. Il supporto di memoria, che ci piaccia o no, è sta diventando a tutti gli effetti un prolungamento della nostra, di memoria. Il vero grosso abbaglio della tassa sull’equo compenso sta quindi nella sua forma anacronistica che considera il supporto di memoria univocamente come un oggetto di registrazione di contenuti protetti da copyright.

2)  Da questo fatto consegue che è a tutti gli effetti una tassa che dovranno pagare tutti per una pratica, la copia privata, che è abitudine di pochi. Le statistiche (ministeriali) ci dicono che solo 13 italiani su 100 fanno un backup digitale di un’opera protetta da copyright. E’ un numero che non è difficile da accettare, e mi pare perfino gonfiato: sinceramente, quante persone conoscete che si fanno una copia privata di un contenuto audiovisivo che hanno acquistato? Io ne conosco molte che comprano quel contenuto audiovisivo già in formato digitale, scaricandoselo o comprandosi la possibilità di ascoltarlo in streaming. Ma di persone che si comprano il DVD dell’ultimo film di Lars Von Trier e poi ne fanno un backup in formato digitale io ne conosco una, forse due. E allora far pagare una tassa pregiudiziale a tutti quelli che comprano dei dispositivi digitali con un supporto di memoria solo perché una piccola parte di consumatori li utilizzano per fare copie private è un po’ come mettere una tassa sui coltelli da cucina perché qualcuno li può utilizzare per ammazzare la moglie (esagero, ma la logica è quella).

3) Nonostante queste contraddizioni per molti la tassa sull’equo compenso rappresenta un risarcimento del diritto d’autore nei confronti del fenomeno della pirateria. C’è molta confusione su questo punto, perché a tutti gli effetti l’equo compenso entra in gioco solo sulla copia privata, che è un diritto legittimo del consumatore sul materiale acquistato legalmente. Non può invece riguardare tutto quello che è stato acquisito illegalmente: a ribadirlo senza più dubbi è stata una sentenza della Corte di Giustizia Europea che qualche mese fa ha accolto un ricorso di una società dei Paesi Bassi che produce supporti di memoria:

non può essere tollerata una normativa nazionale che non distingua in alcun modo tra le copie private realizzate a partire da fonti legali e quelle realizzate a partire da fonti contraffatte o riprodotte abusivamente. […] una normativa nazionale che non fa distinzione tra le copie private legali e quelle illegali non garantisce una corretta applicazione dell’eccezione per copia privata. Il fatto che non esista alcuna misura tecnologica applicabile per contrastare la realizzazione di copie private illegali non rimette in discussione tale constatazione.

Questo è un po’ il punto fondamentale della questione. Ora, in Italia la distinzione fra copie legali e illegali c’è eccome. Eppure la sensazione è che, con il passare del tempo, l’equo compenso sia diventata, contro la sua stessa natura, una tassa che in qualche modo compensi economicamente anche gli effetti del fenomeno della pirateria. L’incapacità di contrastare la diffusione in rete di copie illegali porta a tassare maggiormente quelle legali: è come se un controllore su di un tram multasse qualcuno non tanto perché non ha il biglietto, ma perché non è riuscito a beccare quello che invece non ce l’aveva. Questa logica è diabolica anche per un secondo motivo: perché pensare di compensare le perdite causate dalla pirateria tassando quelle tecnologie che oggi consentono l’acquisto della copia digitale (Amazon) o il consumo in streaming della stessa (Spotify), significa paradossalmente contrastare l’unica possibilità veramente concreta emersa negli ultimi anni di far scendere i numeri dei download delle copie illegali e far salire i numeri degli acquisti delle copie legali. Dall’altra parte solo con una costante innovazione, tecnologica e creativa, si può pensare di tappare i buchi alle falle dell’innovazione stessa.  Invece l’equo compenso continua a far sopravvivere un mito insopportabile, falso ed ingiusto: cioè che l’innovazione tecnologica è, sempre e comunque, un freno alla cultura e all’autorialità.

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