in Italia

Mettetevi comodi, che il post è lunghetto e perfino un po’ contorto.

Se c’è una cosa che mi ha fatto molto sorridere dopo il risultato inaspettato del PD di Renzi alle Europee con quell’ingombrante 41%, è stata la superficialità che ha caratterizzato le analisi di molti di fronte ad un fenomeno di queste dimensioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, soprattutto negli ambienti di una certa sinistra, davanti a un fatto che avrebbe dovuto far esplodere domande su cosa si è mosso così in profondità nella società italiana, ha dominato una veloce quanto lapidaria affermazione:

“Renzi ha rifatto la DC”.

Prima premessa.

Ora, DC la votava, per esempio, mio padre che ha abbondantemente passato i 3/4 di secolo. Nel mondo in cui viveva, nell’Italia del secolo breve, lui la DC l’ha votata sempre. Fin dalla nascita. E anche se la DC avesse decretato qualcosa contro i suoi stessi interessi lui non avrebbe avuto difficoltà di fare un segno sullo scudo crociato nella sua scheda elettorale. Questo se vogliamo era la semplicità di vivere in un periodo dove a dominare le scelte degli elettori era l’ideologia: si votava DC per tutta la vita, mentre altri votavano PCI per tutta la vita. Non c’era possibilità di cambiare il cavallo in corsa, perché l’avversario non era solo politico, era innanzitutto ideologico. Non c’era in ballo il governo del paese: c’era in ballo la libertà, o così dicevano, mentre dall’altra parte c’era in ballo la rivoluzione per un mondo (non un governo, un mondo) diverso.

Seconda premessa.

L’ideologia che ha dominato il secolo scorso e quella intorno alla quale i grandi partiti hanno costruito il loro consenso politico non è ovviamente finita con la DC (o con il PCI). In tempi più recenti è stato Berlusconi, una volta entrato in politica, a costruire il proprio consenso attraverso la riproposizione di un campo ideologico e fortemente identitario. E nonostante i muri fossero caduti quasi tutti, il suo approccio alla costruzione del consenso è stato fondamentalmente quello di tracciare una linea invalicabile, come ai tempi della DC: da questa parte ci sono io, diceva Berlusconi, al di là di questa linea invece ci sono i comunisti (sempre loro). Da questa parte ci sono io, al di là ci sono i magistrati al servizio della sinistra. Da questa ci sono io, che sostanzialmente sono il bene, al di là c’è il male, la morte e la disperazione.

Questa operazione di contrapposizione ideologica ha funzionato, e anche bene. Per quasi 20 anni Berlusconi è riuscito a dividere il paese: da una parte i berlusconiani, dall’altra gli antiberlusconiani. La sua capacità di ideologizzare il dibattito politico, spesso attraverso una comunicazione che faceva continui riferimenti proprio al secolo breve e ai suoi simboli, ha finito per bipolarizzare il paese. Se gli andava male, ad ogni nuovo nemico che si faceva, Berlusconi poteva assicurarsi qualche nuovo amico dalla sua parte del campo. In definitiva Berlusconi è stato l’ultimo grande leader ideologizzante di questo paese. Quello che è riuscito a fare suo il colpo di coda del secolo breve e trascinarla (la coda) fino al secolo successivo. Quello che ha capito che, se effettivamente la DC era morta, lo spazio lasciato dalla DC era ancora vivo e vegeto e aveva bisogno di nuova linfa ideologica. Aveva solo bisogno di nuovi simboli, di nuove identità, di nuovi feticci.

E come la DC, anche Berlusconi si contrapponeva con gli avversari non tanto sui contenuti, in profondità, ma quanto piuttosto in superficie, sugli immaginari ideologici appunto. Pur essendo stato un leader ideologizzante la sua azione politica è stata tutt’altro che innovatrice o rivoluzionaria: le vere riforme attuate dai suoi governi si possono contare sulle dita di una mano. Ogni decisione era fortemente negoziata: con i poteri forti, con le caste, con gli alleati politici e via dicendo. Come la DC, il berlusconismo si attestava ad essere un movimento politico che faceva rimanere a galla il paese, che accontentava più o meno tutti e perciò non accontentava nessuno. Il vero obbiettivo era quella di rimanere al potere, non di servirsene davvero. Ideologia e immobilismo. Come la DC.

Fine delle premesse.

E ora arriviamo a Renzi: le sue strategie per la costruzione del consenso appaiono veramente lontane, se non opposte, a tutto questo.

Innanzitutto nell’approccio al dibattito politico Renzi appare inclusivo. E’ ben lontano da costruire muri o tracciare linee. Al centro della sua azione politica Renzi inserisce un contenuto, un punto programmatico, una questione da risolvere. Su questo Renzi apre al confronto con tutti, tanto che è perfino capace di andare a bussare al portone di Arcore. Renzi invece di delimitare il proprio terreno di gioco, tende ad aprirlo, a giocare su più fronti. Il suo intento principale è scardinare le trincee precostituite dell’Italia ideologica e individuare uno spazio dove si possa discutere nel merito delle cose. Perfino dopo la sua vittoria elettorale con il 41%, Renzi ha tenuto un profilo non escludente, evidenziando più che le differenze, i potenziali punti di incontro con gli avversari sconfitti. Perfino nel trionfo Renzi non si sente sufficiente, ma solo necessario.

In secondo luogo, diversamente da altri leader del passato, quello su cui fa leva Renzi nella propria comunicazione politica è il senso reale delle cose. Il bagaglio ideologico carico di simboli ed identità viene messo da parte, al suo posto Renzi parla di numeri, dati, esempi sociali reali e tangibili. Non per questo Renzi non è capace di creare immaginari: lo fa però anteponendo all’ideologa qualcosa di concreto, un orizzonte che non solo si può scorgere, ma anche toccare. “Renzi fa sognare”, si, ma nello slancio emozionale non c’è niente di utopico, niente di impossibile, niente di irrazionale. Tutto ciò che offre sul piatto appare realizzabile, a portata di mano.

Terzo ed ultimo aspetto della comunicazione politica di Renzi è il suo carattere fortemente decisionista. Renzi è inclusivo ed aperto al dialogo, ma allo stesso momento tira le fila per prendere decisioni. Fissa delle scadenze. Insiste perché siano rispettate. Nessun altro leader politico italiano è stato così influenzato dal fattore tempo. E’ per questo che a molti ricorda una scheggia, sia nella sua apparenza reale sia nella sua comunicazione on-line dove tende ad arrivare prima di tutti, dove coglie l’attimo un secondo prima che qualcuno obietti qualcosa. E’ forse la caratteristica più spiazzante ed innovativa di Renzi, quella che più di altre ispira fiducia nell’elettorato italiano. Ed è anche questa una tendenza che si contrappone all’idea di immobilismo ideologico che ha caratterizzato la politica nel secolo scorso.

Ecco, su queste analisi potrei continuare ancora molto. Ma ciò che mi sta a cuore dire è che, in definitiva, Renzi si posiziona come il primo leader che affronta il dibattito politico in modo post-ideologico, perché ha capito che la società italiana è matura per essere condotta definitivamente fuori dal quel secolo breve che nel nostro paese si è allungato oltre misura. Certo, in Italia, nel 2014, rimane comunque uno zoccolo duro affascinato da orizzonti ideologici. Ad esempio, la creatura politica di Beppe Grillo, a differenza del PD di Renzi, fa leva proprio su questo. Il Movimento 5 Stelle, pur presentandosi come novità, è in realtà una trincea ideologica di vecchio stampo che si è costruito un’identità e un linguaggio fortemente caratterizzanti, alzando muri e contrapposizioni (“noi siamo il bene, voi siete la classe politica che deve andare a casa”). Nell’ultima campagna elettorale Beppe Grillo è andato oltre: ha citato immaginari e feticci del secolo scorso (l’Olocausto, Stalin, Hitler, Berlinguer: l’elenco è sterminato). Ha cercato di caricarsi ideologicamente e di forzare la contrapposizione con l’avversario. Ha in definitiva cercato di fare suo quello spazio ideologico latente, così come fece Berlusconi ai tempi di Forza Italia.

Renzi ha scelto una strada opposta. Diversamente da tutti gli altri ha intuito che si trova davanti un paese in cui l’elettorato non vota più per dettati ideologici. Vota sempre di più sulle soluzioni concrete che gli vengono proposte dal politico di turno. Capovolgendo i paradigmi dell’azione e della comunicazione politica novecentesca è riuscito a fare del PD non più un partito classico, ma uno spazio aperto dove si sono riversati vari pezzi di elettorato, molto eterogenei per cultura, età e trascorsi elettorali. Ma è stupido, molto stupido, chiedersi se in quel 41% Renzi abbia preso più voti di “destra” o di “sinistra”. Perché oggi il carattere politico degli elettori è più negoziabile: sono cioè più disposti a “essere di destra” o “essere di sinistra” a seconda delle contingenze, degli interessi e delle opinioni. Ci sarebbe piuttosto da chiedersi se i contenuti con i quali Renzi ha convinto quel 41% di votanti siano di “destra” o di “sinistra”. Ma questa resta un’altra storia, e magari volendo, un altro post.

PS
Nel frattempo alle ultime europee ha votato anche mio padre, uno di quelli che votava DC. So che per certi aspetti Renzi piace anche a lui. Ma quando gli ho chiesto cosa avesse votato lui mi ha detto: “Alfano”. Quando gli ho chiesto il perché, sapendo della sua simpatia per Renzi, lui mi ha risposto con una frase semplice ed illuminante al tempo stesso: “perché in fin dei conti io sono di destra”. Ecco, mio padre rimane uno del secolo breve. Rimane uno della destra e della sinistra ideologiche, non contingenti. Di quando appunto c’era la DC.

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