14 gennaio 2015 | Censura, Italia

Cinque buoni motivi per essere Charlie

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A mente fredda e dopo un po’ di riflessioni, cinque cose provo a dirle anche io.

1) Buona parte delle vignette di Charlie Hebdo erano una satira per la maggior parte io non capivo. Non mi facevano ridere. Non mi facevano riflettere. Non aggiungevano niente alla mia visione delle cose e del mondo. Molte le trovavo stupide, alcune volgari, la maggior parte di cattivo gusto. Eppure quelle vignette oggi assumono per forza di cose un significato diverso da quello che c’è disegnato dentro, cioè l’idea che in un paese tutti devono essere liberi di esprimere quello che vogliono. Che si debba essere liberi anche di essere stupidi, volgari e di cattivo gusto. Il nostro giudizio personale, il nostro buon senso individuale, la nostra idea, per quanto legittima, che avevamo di quelle vignette diventa un lusso che ci possiamo permettere solo se esiste la condizione che ne sta alla base: la libertà della matita che le disegna. Se quella libertà non esistesse più, anche il nostro giudizio andrebbe a mancare. Compreso il nostro giudizio negativo. Dunque non c’è più in ballo la satira intelligente o la satira stupida e volgare, c’è in ballo il fatto che dobbiamo chiederci se vogliamo proteggere questa libertà di essere stupidi e volgari oppure la riteniamo pericolosa perché può offendere qualcuno disposto a farsi saltare in aria. Di fronte a questo io sono per scegliere la prima opzione: se sei così pazzo da trucidare una redazione di giornalisti e decidere di immolare la tua vita per questo, il problema non è certo di chi, anche esagerando, pubblicava quelle vignette, ma da chi ha un’idea così distorta della propria religione da annientarlo in nome di un Dio. Non sono io che devo cambiare la mia idea di società, di rispetto e di tolleranza nei confronti degli altri, è la sua che è sistematicamente sbagliata. “Siamo Charlie” perché Charlie è stato ammazzato (“abbiamo ucciso Charlie”, hanno urlato gli assalitori). Se fosse ancora vivo potremmo permetterci anche di non esserlo.

2) Di tutte le posizioni di fronte al massacro di Charlie Hebdo vince per stupidità quella complottista che puntualmente fa capolino ogni volta in queste vicende: l’idea cioè che l’attentato se lo sono fatti da soli (o magari la CIA, o magari non da soli ma aiutati dalla CIA, eccetera). E la Rete in questi anni ha alimentato questo fascino per il cospirazionismo perché consente a chiunque di accedere in tempo reale a video e foto dell’accaduto, permettendo a chi ha un’idea paranoica del mondo (e molto tempo da perdere) di analizzare eventuali incongruenze vere o presunte con la versione ufficiale dei fatti. Certo, il problema non è qualche utente in rete che si autoproclama esperto di balistica e decide che il video dove viene giustiziato il poliziotto è falso semplicemente perché non vede esplodere (come invece succede nei film di Tarantino). Il problema nasce se a questo giochino partecipano, più o meno consapevolmente, anche dei parlamentari italiani come l’onorevole grillino Sibilia. Oppure un giornalista come Giulietto Chiesa:

Ora, il complottismo, per sua natura, è capace di immaginare il tutto e il contrario di tutto senza poterlo dimostrare, quindi fra tutti gli armamentari è impossibile (ed inutile) da controbattere. Ma la cosa più veramente stupida (e pericolosa) delle teorie del complotto è che non negano solo la versione ufficiale (il che è legittimo), ma facendolo capovolgono di fatto chi è vittima e chi è carnefice. Non è una democrazia europea ad essere stata la vittima di un triplice attentato, ma è stato piuttosto una parte oscura e non ben precisata dell’occidente ad essere stata l’artefice (o ad essere complice) di una messinscena per legittimare future ritorsioni nei paesi arabi. Eppure anche questa corrente di pensiero rientra pienamente in quella libertà di espressione di una democrazia che mercoledì scorso qualcuno ha cercato di mutilare. Dunque “siamo Charlie” perché lo siamo per tutti, anche per questa gente qua.

3) Ad un primo impatto la reazione di fronte ai fatti di Parigi è l’incredulità. Riteniamo inconcepibile che un manipolo militarizzato di terroristi abbia potuto (solo pensare di) mettere in scacco una grande metropoli per più di 48 ore. E riteniamo ugualmente inconcepibile che abbiano potuto agire in modo indisturbato, in pieno centro della città e con nemmeno molta lucidità nella logistica delle loro azioni (l’indirizzo sbagliato, la patente dimenticata e via dicendo). Anche per questo ci facciamo l’idea (sbagliata) che “la faccenda puzza” e che ci sia “qualcuno dietro”. E magari pensiamo: ecco non se lo sono fatti da soli, ma hanno fatto di tutto per non evitarlo. Chiariamo: è stato visibile a tutti il fallimento degli organismi di intelligence e di sicurezza francesi, e su questo non ci piove. Ma la vera questione qui è che non ci si rendiamo conto dell’impossibilità per uno Stato democratico di esercitare dei poteri che non gli appartengono di natura. Sorvegliare tutto e tutti, monitorare 24 ore al giorno intere zone e strade di una città, pedinare dall’alba al tramonto soggetti ritenuti sospetti, addestrare la polizia ordinaria alle regole d’ingaggio di una guerra civile fin dentro il cuore di una metropoli. E’ vero, gli attentatori erano già sulla “lista nera” dei servizi, controllati e sorvegliati quotidianamente. Ma al controllo, in un paese libero si può sempre fuggire. Uno Stato di diritto ammette, verso i propri cittadini (questi erano i due attentatori), delle regole che a un certo punto consentono degli “spazi vuoti”, delle vie di fuga, dei cerchi che si allentano. Il terrorismo islamico, come tutti terrorismi, fa leva proprio su questa vulnerabilità fisiologica delle democrazie. Una vulnerabilità che però per noi è bellissima e preziosa, e di cui non vogliamo (non possiamo) fare a meno. Perché se ne facessimo a meno saremo costretti a vivere non in un paese libero ma in uno Stato di polizia: diventeremo simili (se non peggiori) di chi vogliamo combattere. “Siamo Charlie” perché come quella redazione di giornalisti non vogliamo farci cambiare. Siamo ingenui e vulnerabili ma anche fieri di esserlo. E soprattutto di rimanerlo.

4) Nonostante che molti commentatori hanno ribattezzato l’accaduto “l’11 settembre francese”, ci sono tante cose (tragicamente) nuove nel triplice attentato a Parigi che non ci permettono di ragionare come quattordici anni fa. C’è una democrazia che è stata colpita dal suo interno da un agguato più simile alle logiche militari dei terrorismi occidentali che ai kamikaze di New York. E’ stato individuato un bersaglio, la redazione di un giornale, che non è stata considerata solamente un simbolo dei valori occidentali (come furono le Torri gemelle), ma che è stata ritenuta colpevole di un atto concreto, la blasfemia, e per questa è stato punita. Ma soprattutto la punizione “divina” è arrivata da persone che sono nate e cresciute in Francia, che hanno frequentato scuole francesi e che, inevitabilmente, si sono contaminate con la cultura occidentale. Di fronte a tante novità, il dibattito pubblico, soprattuto da noi in Italia, si è limitato a ragionare per vecchi schemi: la destra non ha perso l’occasione per urlare ai quattro venti la necessità di fermare l’ondata di “immigrazione” islamica, clandestina e via dicendo.

A dimostrazione di non aver capito (o di non voler capire) che il problema non sono i controlli alle frontiere, ma un proselitismo religioso che (anche attraverso canali immateriali come la Rete) può reclutare chiunque ed ovunque, anche quelli che in un paese ci sono nati e cresciuti (ha reclutato perfino delle adolescenti americane, per dire). Dall’altra pare una (certa) sinistra ha rispolverato invece il vecchio adagio per cui alla fine, se l’occidente ha fatto le guerre, ha finanziato i terroristi in Afghanistan e fa il doppiogiochista con le dittature arabe, la carneficina di Charlie Hebdo non è altro che tutto il marcio che gli ritorna indietro. Ad esempio un articolo del blogger Karim Metref è girato parecchio in molte bacheche Facebook di persone di sinistra, amiche e pure intelligenti. Io personalmente lo trovo un mix di retorica, purismo e pilatismo che si sintetizza nella sua chiusura:

Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba.

Chi ha condiviso un punto di vista del genere forse non ha ben chiaro che a questo giro i terroristi che hanno attaccato Parigi non hanno visto l’Algeria nemmeno con il binocolo, non hanno vissuto nessuna guerra che non sia quella che hanno iniziato loro e che sono stati mossi non da quello che l’occidente fa nei paesi arabi, ma da quello che l’occidente fa a casa propria in nome di un laicismo che alla sinistra forse (forse, eh) dovrebbe importare più di ogni altra cosa in questo momento. “Siamo Charlie” anche perché come Charlie Hebdo dovremmo iniziare a mettere in dubbio tutti i tabù, iniziando da quelli più difficili da superare: le nostre ideologie precostituite che in certi casi assomigliano fin troppo a dei banalissimi atti di fede capaci di farci sentire a posto con noi stessi e con il mondo.

5) Poche sono state gli spunti di riflessione. Uno, lo devo riconoscere, ha provato a farlo Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, affrontando un tema delicato come quello del comportamento dei musulmani moderati di fronte all’attentato. Un contributo che spezza il disco rotto di chi continua, in queste occasioni, a chiedere ai musulmani di “dissociarsi” dal terrorismo integralista e prova, ricordando la Rossana Rossanda de “L’album di famiglia”, a fare un passo in avanti (coraggioso e spinoso):

All’Islam non servono ritrattazioni, dissociazioni, condanne. E diciamo la verità: chiedere ai suoi esponenti qualcuna di queste cose ha sempre un sapore sgradevolmente intimidatorio, specie se, come accade spesso, chi avanza simili richieste non sta a Bagdad o a al Cairo ma vive ben rimpannucciato in qualche metropoli europea o americana. Oggi all’Islam serve altro:

[…]

Di qualcuno nelle sue file che abbia la lucidità intellettuale e il coraggio di dire che se nel mondo si aggirano degli assassini – non uno, non dieci, ma migliaia e migliaia di assassini feroci – i quali sgozzano, violentano donne, brutalizzano bambini, predicano la guerra santa, e fanno questo sempre invocando Allah e il suo Profeta, sempre annunciando di compiere le loro gesta in nome e per la maggior gloria dell’Islam, ebbene se ciò accade non può essere una pura casualità. Non può essere attribuito a una sorta di follia collettiva. Il mondo non è pazzo: qualche ragione deve esserci. Deve esserci qualche legame – distorto, frainteso grossolanamente, erroneamente interpretato quanto si vuole – ma un legame effettivo con qualcosa che riguarda l’Islam reale.

[…]

perché un discorso sull’«album di famiglia», come si capisce, non può che venire dall’interno della famiglia stessa. In questo caso dall’interno dell’Islam, dalla sua intelligenza del momento storico e dei pericoli che si stanno addensando per tutti. Solo così conta qualcosa e può produrre qualche effetto.

L’altro spunto che dovrebbe riflettere non riguarda quello che dovrebbero fare i musulmani moderati, ma piuttosto che non abbiamo non fatto noi, qui in occidente. Una lettera scritta da quattro insegnanti di una scuola di Seine-Saint-Denis e riportata (nonché tradotta) dalla sempre attenta Claudia Vago, ci parla del sentimento di chi, in contesti difficili come quella delle banlieue parigine, le stesse da cui provenivano gli attentatori, non è riuscito a rendere l’integrazione un fatto compiuto. Ed è, belle parole a parte, l’ammissione di un fallimento profondo, indelebile e tragico:

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.
Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Eccolo il quinto motivo per essere Charlie, forse quello più importante: perché dipende anche da ognuno di noi non doverlo mai più essere in futuro.

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