26 novembre 2011 | Cinema

Azzurro opaco e profondo rosso (TFF 2011, prima giornata)

La prima cosa da segnalare in questa prima giornata del TFF, è che quel colore azzurro opaco con il quale hanno stampato l’accredito PRESS è veramente poco incoraggiante. Sembra di girare con un pezzo di ghiaccio al collo quando, invece, per combattere anche semanticamente il freddo torinese, avremmo tutti preferito un colore più “caldo”.
Ma qualcuno, scherzando, ha suggerito che forseil colore rosso l’hanno terminato per colorare il primo Red Carpet della storia del Festival, quello su cui ieri sera ha camminato fra gli altri, Jennifer Lopez per la tanto pompata anteprima di Moneyball – L’arte di vincere. Un colpo al cuore (il Red Carpet, non la Lopez) a cui molti TFF addicted non hanno retto: per carità – qualcuno ha detto – va bene l’apertura a inviti, ma vi prego, il Red Carpet gossipettaro no.

Dall’altra parte Torino non è Venezia o Roma, e nemmeno lo vuole diventare: l’austerità e la sobrietà montiana di cui si parla in questi giorni nelle alte sfere della politica, qui è già realtà da qualche decennio. Tanto che dagli uffici del Festival si sbrigano a ribadire che è stato un tappetto rosso veloce, breve e poco vistoso.
Un “redcarpino” indolore insomma? Mica tanto. Il maestro Aki Kaurismaki, che doveva presentarsi alla serata d’inaugurazione per ritirare il Premio Torino, non si è fatto vivo, proprio perché allergico al quel manto rosso un po’ divistico e troppo formale.

Ma allora, vi chiederete, questo benedetto tappetto rosso a cosa è servito? Forse a farsi presidiare dagli operatori della cultura e dagli studenti universitari che hanno protestato contro gli ormai noti tagli alla cultura. Da Red Carpet a Red Flag. Qualcuno giura di aver visto Charlotte Rampling prendere il volantino dei manifestanti, leggerlo, e incoraggiarli alla lotta. Qualcuno giura perfino di aver visto Jennifer Lopez alzare il pugno al cielo in segno di solidarietà. Sarà vero?

Quello che è certo è che la crisi si fa sentire parecchio anche qui, parola di Gianni Amelio, che confessa che tutta la baracca quest’anno è stata pagata con soli 2 milioni di euro di budget. Il direttore definisce il suo Festival facendo eco a un film di Dino Risi: “povero ma bello”. Povero forse lo è, ma bello?

È presto per dirlo. Il concorso però si è aperto in maniera abbastanza sorprendente (a quelli del TFF piace spiazzare il pubblico fin da subito), con 17 Filles, lungometraggio d’esordio delle sorelle francesi Coulin. Incredibile storia (eppure ispirata a fatti di cronaca) di un gruppo di ragazze sedicenni della profonda provincia francese che un bel giorno decidono di rivoluzionare la propria vita, facendosi mettere incinta. Il risultato finale saranno 15 adolescenti con il pancione nello stesso Liceo cittadino. Un “pancione” che diventa uno vero e proprio status symbol, la gravidanza che si trasforma in una scelta di ribellione generazionale e in uno strumento di emancipazione femminile. I maschi non ci sono o fanno capolino solo come “corpi” da utilizzare (con tanto di pagamento per qualche prestazione).

Un piccolo mondo capovolto eppure realmente esistito. E, intendiamoci, in tutto ciò nessun sentimentalismo anti-abortista alla Juno: la determinazione delle adolescenti di 17 Filles deriva invece dalla convinzione lucida e razionale che un figlio possa facilitare la loro vita, liberarle dai dogmi imposti dai genitori e dalle convenzioni sociali, essere la scorciatoia per quello che comunque un giorno saranno destinate a diventare.
È una visione tanto folle quando sovversiva, e che naturalmente cova un’illusione di fondo che non tarderà a materializzarsi. Ma la bravura di Delphine e Muriel Coulin sta soprattutto nel coraggio di raccontare la storia in modo leggero, senza mai suggerire il loro punto di vista, optando per uno stile documentaristico (documentarista dall’altra parte è la stessa Muriel), e osservando con un distaccato quasi fiabesco tutta l’incredibile vicenda.

La scena della spiaggia, dove le ragazze prendono a calci un pallone infuocatosi nel falò è forse l’unico didascalico riferimento al “giocare con il fuoco”. Tutto il resto viene riconsegnato allo spettatore disorientato e anche un po’ divertito. Ma guai a pensare il mondo di 17 Filles come una semplice provocazione anti-femminista: lo squarcio sociologico che ci offre è invece esemplare e dovrebbe far riflettere un po’. “Se non ora, quando?”

Originariamente pubblicato permixtape

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  1. Le “17 ragazze” rivendicano il potere e il diritto femminile di procreare e lo fanno radicalmente e utopicamente, vale a dire in forma collettiva, liberata dall’isolamento, l’incomprensione e la paura di vivere che regna nelle loro famiglie e fra gli educatori. Creano la loro comunità scatenando una grandiosa energia vitale contro la società che ha vincolato ormai ogni aspetto dell’esistenza alle leggi del mercato capitalistico (“credevo volessi studiare per trovarti un buon lavoro!” sono più o meno le parole rivolte dalla madre single alla protagonista) e per questo ha perso la voglia di vivere e di prendersi cura della vita. è la storia di un’utopia alla quale le registe stesse, purtroppo, non credono fino in fondo; infatti chiudono il film con un giudizio velleitariamente amaro sugli esiti e i risvolti della vicenda spacciandolo per commento corale postumo delle 17 ragazze,tornate ad essere isolate e disilluse. I ragazzi in questo film si vedono di rado perchè evidentemente non stanno venendo da loro l’impulso e la necessità primarie di cambiare davvero le cose. la rivoluzione utopica qui non è il rimanere incinta, mettere al mondo un bambino, ma ricreare una collettività (inizialmente femminile) più forte e più gioiosa rispetto alle regole di una società pesantemente in crisi, che ha perso il senso della vita e dell’amore e non reagisce più nel veder morire il mondo (ripensa al disincanto del fratello soldato della protagonista), la natura (le coccinelle suicide). Alcuni fra i ragazzi tuttavia, anche se si vedono solo ‘al margine’ della storia, non sono affatto ridotti a ‘insetti’ inseminatori; colgono il messaggio, godono di notte con le ragazze delle gioie dell’amore – ora più vero, libero, condivisibile e condiviso!- e l’amico della protagonista non a caso è teneramente e rispettosamente vicino a lei nel momento del dolore e della perdita. E questa presenza, per il momento, non è poco. Più preoccupante, invece, è l’atteggiamento incoerente, quasi schizofrenico percepibile nell’epilogo del film, che non poteva finire bene perchè, a detta di una delle due registe, presente in sala, “un lieto fine implicava una responbilità troppo grande per noi, migliaia di giovani ragazze forse avrebbero tentato di emulare l’esempio restando incinte.” Insomma, questo film si presenta come un anti-Juno, pronto a riportare con i piedi per terra adolescenti energiche ma sventatelle, e io ho imparato qualcosa di nuovo: che in un certo cinema impegnato di oggi l’esperienza utopica, qualunque messaggio porti, va raccontata esclusivamente come sogno; non bisogna commettere l’errore di crederci, altrimenti si potrebbe rischiare di destabilizzare davvero la nostra bella società.
    Con amore e con rabbia
    Barbara Viazzo